Seconda recensione del 2010 riguardante Pietro Riparbelli, artista multidisciplinare toscano e curatore dell'etichetta Radical Matters, che utilizza le onde corte come punto di partenza per i propri dischi ambient.
Pietro sceglie luoghi particolari per procurarsi la materia prima: l'abbazia di Thelema a Cefalù (la casa di Aleister Crowley), la basilica di san Francesco ad Assisi e qui un bosco durante l'intervallo di tempo che va dal crepuscolo a notte fonda.
K11, anzitutto - come è giusto che sia per qualcosa di sperimentale - fa nascere delle domande. Si può parlare di musica concreta, di field recordings? Difficile rispondere, perché se da un lato non vengono registrati movimenti percettibili, bensì impercettibili, dall'altro pure con gli altri sound artist ci si muove lungo il confine tra reale e astrazione, dato che questi sono armati di microfoni potentissimi che nei luoghi più diversi (oceani, ghiacciai, caverne…) intercettano comunque ciò che noi normalmente non sentiamo, creando un nuovo ambiente, più o meno collegato a quello di partenza.
Relativamente a questo, ci si può dunque chiedere anche se un bosco – in quanto quel bosco o in quanto luogo "culturalmente" pauroso – produca magari magicamente onde corte più inquietanti che un ufficio vuoto con i PC ancora accesi, dato che l'ascolto "alla cieca" del CD non fa necessariamente pensare di trovarsi in mezzo agli alberi.
Nessuno qui possiede gli strumenti conoscitivi per pronunciarsi, né quelli filosofici (fenomeni, noumeni e incubi pre- e post-kantiani vari sembrano impropri nel contesto di una recensione): forse si può ipotizzare che questo sia uno degli obiettivi della ricerca del progetto K11.
Un'altra domanda ancora: dire che i suoni provengono da una foresta, da una basilica medievale o da dove viveva Crowley non è un modo per far più colpo rispetto a chi dice che si tratta di materiale raccolto a casa propria (lo fa Helena Gough, due dischi su Entr'Acte)?
Questa è facile: Pietro si muove a tutto campo nell'arte, offre sempre una controparte visiva al tutto (nel CD si trova un filmato che documenta la nascita sul campo del disco) ed è libero di suggestionare l'ascoltatore come meglio crede (prima della rivoluzione file-sharing si fantasticava con le copertine…), il che giustifica ampiamente la scelta di una determinata cornice.
Infine: cosa resta se non si prende in considerazione tutto ciò che sta a monte di "Waiting For the Darkness"? Drone. Sembra che le onde corte diano un corpo enorme e pesante a una creatura tre quarti dark ambient e un quarto noise, per cui ne esce un disco solido, sobrio, essenziale e nerissimo, circondato da un'aura di elettricità e attraversato da striscianti inquietudini.
Minimalista e profondo come Amon, Caul, Subinterior, con squarci violenti tipo Wolf Eyes, trova in Afe Records l'etichetta ideale.
[Fabrizio Garau] |